Il 23 febbraio 1996 usciva in Inghilterra il film di Danny Boyle. Il sequel prevede lo stesso regista e lo stesso cast.
Era il 1996 quando Trainspotting, adattamento cinematografico del romanzo dello scrittore irlandese Irvine Welsh, usciva nelle sale cinematografiche. La maggior parte di noi non aveva neanche l’età per capire se fosse più giusto bere latte o acqua. La maggior parte di noi non ricorda nemmeno cosa ha mangiato ieri a pranzo, ma tutti, nessuno escluso, ricordano l’elenco
di “buoni propositi” da (non) scegliere, quello in cui si nascondeva la parte più eterna e immortale dello spirito punk di quegli anni. Un monologo che ha prodotto un effetto liberatorio, di un inno generazionale alla disillusione verso un futuro promesso e poi venduto, che faceva sembrare anche la droga una scelta più valida. Un film divenuto Cult, che ha appassionato anche le
generazioni future per la forza dei temi trattati. Fatta questa premessa la domanda che in molti si pongono è: c’era davvero bisogno di fare un sequel di cotanto capolavoro? 20 anni dopo? Quando praticamente devono vedere se riescono a reggere
uno spinello, figuriamoci la droga?
La risposta arriva con Trainspotting 2. Un film che non può ignorare il peso del passato, che non può deludere orde di generazioni, di fan accaniti; un film che, invece, ci è riuscito. C’è stato un lontano e poco riuscito tentativo di ripulire gli
interni squallidi in cui gli attori si trovavano 20 anni fa. E’ sulle note di Lust for Life di Iggy Pop, con un remix dei The Prodigy, che vediamo tornare Reton, Spud, SickBoy e Begbie, ormai ultra quarantenni. Renton (Ewan McGregor) si è fatto una vita ad Amsterdam con annessi un lavoro da contabile, una moglie, un divorzio e un attacco di cuore.
Sick Boy, ovvero Simon (Jonny Lee Miller), gestisce apparentemente un pub fallimentare che nasconde il suo vero business sessuale, gestito con una prostituta bulgara. Begbie (Robert Carlyle) ha invece provato a farsi una famiglia, ma è stato
condannato a vent’anni di carcere da cui è evaso. Ora ha soltanto forti problemi di erezione. E, infine, Spud (Ewen Bremner) l’uomo che non ha mai abbandonato l’eroina, e viceversa. Come ogni 40enne che si rispetti, gli attori interpretano personaggi legati ai propri ricordi, si nutrono dei successi e delle avventure del passato. Tutto questo si ripercuote anche nel film che,
goffamente, cerca di bissare il successo del 1996, girando il tutto senza puntare alla memorabilità della pellicola. La furia che animava i 4 ragazzi è stata sostituita dalla calma degli uomini adulti, l’esagerazione che ha reso il film celebre con la moderazione, quasi come se si stesse guardando il proprio padre sullo schermo. Danny Boyle cerca in tutti i modi di celebrare le scene più memorabili del suo primo lavoro: affida ai racconti e ai flashback di Spud i collegamenti con il primo film nel tentativo di costruire un film nuovo. Si fatica a cercare una chiave di lettura valida per aver riportato 4 pensionati a drogarsi. La
storia del ritorno di Mark Renton a casa, di cosa sia successo agli altri e di come possano ora vivere di nuovo insieme (ma perché), non fila dritta, manca di sostanza e fa sembrare il film come una serie di sketch attaccati. Trainspotting 2 decolla benino,
accettando la propria dipendenza dal precedente e dichiarandola subito; tuttavia poi si dovrebbe avere un distacco, uno sviluppo, un qualcosa che motivi. E questo è l’errore fatale del sequel. Un’attesa inconcludente. Non arriva nulla di nuovo.
Per chi fosse ancora in tempo, il mio consiglio è quello di fermarsi al primo Trainspotting, almeno conserverete il miglior ricordo della pellicola.

 

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