Si può uccidere per liberarsi di un legame coniugale? La storia del crimine in Italia è una continua risposta affermativa a questa domanda, oggi come ieri. Il 14 marzo 1963, due anni dopo l’uscita del film “Divorzio all’italiana” di Pietro germi, in un appartamento ricavato in un’ala della casa di cura “Nigrisoli” di Bologna, entra improvvisamente in stato di coma Ombretta Galeffi. La donna ha 38 anni, è madre di tre figli ed è coniugata con il dottor Carlo Nigrisoli, 40 anni, un medico che non esercita la professione e che svolge il ruolo di amministratore della clinica teatro del fatto. L’uomo è figlio dell’illustre professor Pietro Nigrisoli, cattedratico presso l’Università di Bologna. I medici della casa di cura, chiamati a soccorrere Ombretta Galeffi, si trovano di fronte a un quadro irrisolvibile di asfissia acuta. La donna muore e i sanitari, dopo aver accertato il suo decesso, si rifiutano di redigere il certificato necroscopico di morte per cause naturali. Sul comodino accanto al letto della Galeffi , che dormiva senza condividere il talamo nuziale, viene ritrovata una siringa usata e un flacone vuoto di sincurarina, un farmaco che provoca una morte per soffocamento, determinando una paralisi della muscolatura respiratoria. Tra l’altro, si tratta di una sostanza che è difficile individuare nei tessuti e nei liquidi organici post mortem. Il professor Pietro Nigrisoli accorre ed effettua un accurato esame esterno del corpo della nuora, poi inveisce violentemente contro il figlio e telefona a un avvocato di fiducia, incaricandolo di avvisare la Procura della Repubblica. L’autopsia disposta dal P.M. rileva un segno di agopuntura alla piega del gomito del cadavere e i reperti tipici di una morte asfittica, ma è, di fatto, inutile a porre una diagnosi capace di orientare le indagini, ma gli esami laboratoristici messi in essere evidenziano la presenza di tracce che possono essere riferibili a sincurarina nelle urine della donna. È il dato che fa scattare l’arresto di Carlo Nigrisoli. Le successive indagini accertano che il matrimonio di Ombretta Galeffi e Carlo Nigrisoli era in profonda crisi e che quest’ultimo aveva una relazione extraconiugale con una ragazza, Iris Azzali. L’uomo era innamorato in maniera morbosa della giovane donna e l’uxoricidio, in un’Italia in cui il divorzio non ancora stato istituito, era l’unica soluzione per non perdere l’amante, che era decisa a troncare il rapporto clandestino. È un movente valido, che basta agli inquirenti. Carlo Nigrisoli si difende e dichiara che l’agopuntura rilevata alla piega del gomito della moglie è relativa a un suo tentativo di rianimazione. Nessuno gli crede. L’iter giudiziario è veloce. Le prove a carico dell’imputato sono schiaccianti. I difensori di Nigrisoli invocano l’infermità di mente del loro assistito, ma la Corte d’Assise di Bologna non concede la perizia richiesta,anche perché il giorno seguente il delitto, l’uomo venne sottoposto a visita psichiatrica dal professor Zanello, che escluse un’infermità mentale in atto. Il 14 febbraio 1965 Carlo Nigrisoli viene condannato all’ergastolo, senza la concessione delle attenuati generiche, perché è “un criminale attento e preciso che ha studiato meticolosamente il suo progetto delittuoso perché appaia un evento naturale, con fredda determinazione ha tradito il suoi doveri di medico, di padre e di marito” e ancora, perché “ci si trova di fronte a un individuo che non agisce per impulso subitaneo, ma che ha studiato meticolosamente tutto, a un individuo che culla lungamente nell’anima il proprio progetto criminoso… che sceglie con cura il mezzo e il tempo dell’azione…mezzo che provochi una morte rapida e silenziosa e le cui tracce nel corpo umano spariscano immediatamente…”. La sentenza viene confermata nei successivi gradi di giudizio.