Agrigento, la sera del 30 marzo 1960. Il commissario di Polizia di Stato Cataldo Tandoj viene ucciso mentre sta tornando a casa, percorrendo viale della Vittoria, sottobraccio alla moglie Leila Motta. Il commissario viene raggiunto alla schiena da tre colpi di pistola esplosi da un uomo e s’accascia al suolo, la moglie riesce a vedere il sicario, poi si getta sul marito, come a fargli scudo, cerca di soccorrerlo, chiama aiuto, tenta di fermare la corsa di una macchina in cui crede sia salito l’assassino. Nell’aggressione, altri due colpi esplosi dal killer raggiungono e uccidono, per errore, Antonio D’Amati, uno studente di soli 17 anni d’età, che stava passeggiando lungo il viale.
Cataldo Tandoj si trovava ad Agrigento in vacanza, ed era tornato da qualche giorno da Roma, dove era stato trasferito su sua richiesta.
L’opinione pubblica è scossa. Tandoj è il primo commissario di polizia ad essere ucciso in quel modo in Sicilia. Perché tra la mafia e le forze dell’ordine vige una sorta di patto non scritto, una consuetudine per cui “gli sbirri”, se lavorano facendo il loro dovere e non abusano dei loro poteri, non possono essere esposti ad azioni efferate come quella che, invece, è stata messa in essere lungo viale della Vittoria ad Agrigento. L’unico caso in cui l’Onorata Società avrebbe potuto ordinare l’esecuzione di Cataldo Tandoj è quella di un’azione del commissario che abbia obbligato i mafiosi a infrangere una consuetudine ormai storica. Certo è, comunque, che qualcuno ha ordinato l’uccisione del commissario. Le indagini, condotte dal Procuratore della Repubblica Francesco Ferotti, dopo una prima fase di stallo, grazie a notizie fatte giungere dagli informatori delle forze dell’ordine sparsi sul territorio, si orientano verso l’ipotesi del delitto passionale. Addirittura i capi mafia dell’agrigentino fanno in modo di far giungere alla polizia la notizia che non solo non avevano alcuna responsabilità nel delitto, ma che lo ritenevano un’azione indegna. Gli inquirenti, a questo punto, frugano nella vita privata di Cataldo Tandoj. Emerge che il commissario aveva richiesto il trasferimento a Roma per “esigenze di carattere familiare”. Ma quali erano questi motivi? Tutta Agrigento sapeva che il rapporto coniugale tra Tandoj e Leila Motta era in crisi da anni. La donna, figlia di Giovanni Motta, un funzionario di polizia che per dodici anni era stato assegnato alla sicurezza di Rachele Mussolini, dopo aver vissuto a Roma per molti anni, aveva conosciuto Cataldo Tandoj durante un periodo in cui aveva svolto il ruolo di crocerossina in un ospedale di Rimini. La vita coniugale in una città come Agrigento certo non era il massimo per una donna come Leila Motta Tandoj e così, un paio d’anni prima dell’omicidio, aveva cominciato a frequentare la coppia formata dalla jugoslava Danika Pejorie e dal marito Mario la Loggia, un medico specialista in psichiatria impegnato anche in politica con la Democrazia Cristiana, fratello dell’ex presidente della regione Sicilia Giuseppe la Loggia. Mario La Loggia è un uomo colto, anticonformista, affascinante, capace di scelte controcorrente anche in politica, dove è stato fautore di un’apertura alla sinistra locale che scatenò la reazione irata del vescovo di Agrigento. Danika Pejorie è una “straniera” e già questo la caratterizza come esotica, portatrice di disturbo sociale per la sonnolenta Agrigento, specialmente perché è una donna insofferente rispetto alle consuetudini ipocrite della vita siciliana dell’epoca, non molto avvenente, ma attraente proprio per la sua carica di anticonformismo. Leila Motta Tandoj frequenta assiduamente i due e inizia una relazione sentimentale con Mario La Loggia.
Nel corso dell’indagine, certamente non basata solo sulle chiacchiere di paese, vengono trovati biglietti di Leila Motta Tandoj indirizzati a Mario La Loggia e una lettera, diretta a Cataldo Tandoj, in cui lo stesso La Loggia faceva al commissario la strana richiesta di soprassedere al trasferimento a Roma, adducendo come scusa il fatto che sua moglie Danika, pur di non perdere l’amica Leila, l’avrebbe seguita anche nella capitale. Come dire: è inutile scappare a Roma, tanto la mia relazione con tua moglie continuerà in ogni caso. In sintesi, gli inquirenti, dimostrata l’esistenza della chiacchierata relazione tra Mario La Loggia e Leila Motta Tandoj, ritengono che il delitto sia opera dei due “amanti diabolici” e li arrestano con l’accusa di concorso in duplice omicidio. Così vogliono i mass media (giornalie rotocalchi) scatenati contro la coppia di amanti, così vuole l’opinione pubblica dell’epoca, punitiva nei confronti degli adulteri e così vuole, come vedremo, soprattutto Cosa Nostra. Ma considerando i dati in possesso degli inquirenti, tutti esclusivamente indiziari, restano aperti molti interrogativi. La struttura caratteriale di Leila Motta Tandoj, tra l’altro definita come una persona equilibrata e razionale, non è davvero tale da poter condizionare le azioni di un uomo dalla personalità forte e articolata come Mario La Loggia. E poi il comportamento della donna durante l’agguato non concorda con l’ipotesi che lei sia la mandante dell’omicidio: durante le concitate fasi dell’agguato dapprima si è gettata sul marito per aiutarlo, per proteggerlo, poi ha assunto un comportamento attivo cercando di fermare l’automobile su cui ella credeva fosse salito il killer. Inoltre, grazie alla sua testimonianza, precisa e puntuale, si è giunti all’identificazione dell’assassino del commissario nella persona di Salvatore Colacione, coadiuvato da Salvatore Pirrera. L’unico dato oggettivo che potrebbe far pensare a un coinvolgimento di Mario La Loggia è il fatto che Pirrera era un suo galoppino politico durante le campagne elettorali. Decisamente troppo poco. Comunque sembra che tutti non vedano l’ora di mettere una pietra sopra alla vicenda, condannando ab initio i due amanti e specialmente la donna, adultera e rea di aver fatto le corna a un importante poliziotto. Un cambiamento della guardia a livello della magistratura determinò l’allargamento delle ottiche investigative. Bisognava indagare sulla vita di Cataldo Tandoj a 360 gradi, senza limitarsi alla sfera privata. Così, in maniera inspiegabilmente tardiva, salta fuori il diario del commissario, con annotazioni estremamente preziose per giungere ai veri mandanti del delitto, ai capi clan mafiosi dell’agrigentino.
Perché la motivazione della decisione di uccidere Tandoj era tutta nel fatto che il poliziotto sapeva troppo e c’era il concreto rischio che, una volta stabilmente a Roma, decidesse di rivelare le notizie in suo possesso, con grave danno per l’Onorata Società, soprattutto della cosca di Raffadali. Perché il commissario Cataldo Tandoj aveva fatto da mediatore nel corso di affari relativi a compravendite di terreni in cui era implicato il noto capo clan mafioso Genco Russo e, inoltre, aveva ricevuto un prestito in denaro da un altro mafioso, Gerlando Carnone. Ma, ancor più, il commissario era a conoscenza di importanti informazioni relative ai mandanti dell’assassinio del mafioso Antonino Galvano. La mafia, dunque, nella sua ottica criminale, aveva deciso di eliminare il commissario e, nel contempo, aveva predisposto un articolato piano di depistaggio delle indagini, indirizzando, di fatto, l’attenzione degli inquirenti sulla falsa pista del delitto passionale, eventualità che trovò buon pabulum nell’opinione pubblica ipocritamente perbenista e nella stampa assetata di notizie scandalistiche capaci di far levitare le vendite dei giornali. L’indagine, finalmente ben orientata, condusse all’imputazione di 22 persone e, nell’estate del 1968, a un verdetto di colpevolezza emesso dalla Corte d’Assise di Lecce.
Nella sentenza, in verità, si fa riferimento anche a possibili implicazioni politiche facilitanti la decisione dei capo clan di ordinare il delitto Tandoj, ma tali aspetti non hanno poi trovato una puntuale conferma in seguito. La Corte di cassazione, il 28 febbraio 1975, conferma il verdetto di condanna già formulato in primo grado e in Corte d’Assise d’Appello. Otto condanne all’ergastolo, di cui soltanto una messa in essere, perché sette dei condannati hanno trovato il modo di scappare dall’Italia e di far perdere le loro tracce.

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