La realtà è che De Cataldo (assieme a Bonini), più di tutti, conosce la città. Ne riconosce le puzze, i profumi, le ricchezze, le miserie. Come uno stregone cieco, che abbia affinato altri sensi, capta i movimenti del mondo di sotto; anticipa inchieste e fatti di cronaca. Perché togato e conosce le carte? No. La sua abilità e sciamanica. Una Pizia del dio Apollo. Mangia la città e la vomita, interpretandone i succhi, come un Aruspice. Non c’è più verso di staccare gli occhi dal romanzo, una volta iniziato. Realtà e finzione, finzione e realtà. In tv, in un talk show, lui e l’avvocato del “cecato” (o era del samurai o invece del nero?) a parlare di Roma vera e di Roma inventata. Ma è inutile. E’ sul piano del romanzo, dell’immaginato che si gioca la battaglia. L’immaginato più potente del reale, l’immaginato è raccontabile, il reale no. Nessun lettore di noir crederebbe alla storia di un sindaco costretto a dimettersi per un paio di cene. Io appunterei sul libro “passaggio poco credibile”.
Il togato e il giornalista scrivono un romanzo sociale il cui filo conduttore è il crimine. Perché il crimine prende, attira, affascina. De Cataldo e Bonini giocano con la leggerezza dei narratori visivi americani. Come in una puntata dei Soprano, Roma è svelata. Le antropologie definite, i quartieri disegnati. Qui comandano questi, lì comandano questi altri.
Secondo capitolo e ideale prosecuzione di “Romanzo criminale”, laddove, forse, “Nelle mani giuste” “non era andato a dama”, per dirla con le parole del samurai (che sia o non sia “il cecato” poco importa). De Cataldo e Bonini conoscono la formula chimica della città (quella attuale), come Sallustio la conosceva scrivendo di Catilina o Tacito scrivendo di Galba. Tutti, al loro tempo, la conoscono. Ma Roma cambia sempre (e non cambia mai). Unica tra le città del mondo a essere rimasta grande, attraversando duemila anni. Storia stratificata nei suoi selciati consolari, nelle facciate barocche, nei suoi vicoli papalini, tra le geometrie razionaliste dell’Eur e del Foro Italico. “Vedo la gente che parte, che viaggia, ma dico: dove dovete andare? State a Roma! Ma perché ve dovete spostà?” Alberto Sordi più o meno così motteggiava (a torto: in un vago sapore provinciale per non ritenere il mondo degno di scoperta; a ragione: per definire l’urbe quale centro del mondo, polo universale d’occidente Ae non solo). Roma è sempre stata Roma per volsci, ernici, etruschi e sabini. Per inglesi, americani e tedeschi. Da “Quousque tandem, Catilina, abutere patientia nostra?” a “A paparazzo vie n’ po’ qua!”. In una recente intervista il regista di turno della spy più famosa al mondo, ha candidamente dichiarato che “Nel film ha fatto apparire Roma bella”… Lui!?… Nel film!? …Ha fatto apparire bella Roma!?.. Roma, dico.. Lui l’ha fatta apparire bella? Ma Roma assorbe tutto e tutti. Il suo culto è assoluto, i barbari devastatori diventano adepti, gli assedianti di un tempo, diventano strenui difensori delle sue mura. De Cataldo e Bonini aprono la porta di uno dei suoi tanti luoghi segreti. E’ il ripostiglio buio di questi anni. Ne verranno altri a scoprirne di nuovi (e di vecchi). Roma rimarrà lì, immobile, eppure brulicante di vita, di passioni, di appetiti, di desideri turpi e puri. La Suburra rimarrà il serbatoio della Roma dei consoli e dei palazzi imperiali. Le Sue storie, come la città, sono immortali. De Cataldo e Bonini lo sanno.
“Iam primum omnium satis constat Troia capta in ceteros saevitum esse Troianos..” (Tito Livio – Ab Urbe Condita)

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