Re di spade

Lug 10, 2015

“Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita”.
Louis-Ferdinand Céline – Viaggio al termine della notte

Come fosse l’ultimo uomo sulla terra.Percorreva le strade buie e deserte della città alle tre e trenta del mattino, un giorno di febbraio, in una provincia italiana. Il Colonnello Attilio Svevia camminava stretto nel suo impermeabile blu notte. Bavero alzato e mani in tasca. La figura longilinea, il fisico asciutto e ancora muscoloso. Aveva compiuto sessant’anni da poco ma lavorava ancora come se fosse il suo primo giorno nell’Arma. La copertura di gomma delle sue scarpe di cuoio non attutiva il rimbombo dei suoi passi, amplificato dal silenzio e dalla cassa di risonanza degli antichi palazzi tra le strette vie del centro. Nessuno.  Neanche un netturbino o un’auto di pattuglia, nemmeno della polizia municipale. Nessuno. Come in un romanzo apocalittico di ultima generazione, uomini, donne, animali erano spariti dalla città. Ma non era stata la pandemia a causare il deserto delle anime. Il freddo piuttosto, arrivato nell’ora in cui il sonno è al suo momento più profondo, aveva scoraggiato anche i più incalliti nottambuli. Svevia camminava sentendo la rigidità della piccola automatica infilata nella cinta dei pantaloni. Le mani in tasca: la sinistra a riscaldarsi contro l’imbottitura di lana scozzese, la destra a stringere, tra le lunghe dita da pianista, una carta da gioco italiana, il Re di spade: il segno di Yuri. Yuri l’inafferrabile, Yuri il sofisticato, Yuri la spia russa. Trentacinque anni di servizio informazioni per Svevia, trentacinque anni di Yuri in Italia. Quando Yuri aveva capito che Svevia era il suo cacciatore, aveva cominciato a far pervenire mazzi di carte italiane in busta chiusa nella compagnia carabinieri della sua città natale. Dopo ogni fatto o accadimento poco chiaro per l’opinione pubblica, ma chiarissimo per chi frequentava forte Braschi o il Viminale, ovunque fosse, Svevia aveva ricevuto la chiamata del comandante della locale stazione carabinieri. Sempre la stessa, negli anni erano cambiati solo i gradi: “C’è un plico per Lei.” Fino al grado di capitano aveva aspettato gli artificieri, poi le aveva ritirate senza aspettare più nessuno. Sapeva cosa contenevano quelle buste commerciali con il suo cognome scritto al normografo in inchiostro rosso. Trentanove carte da gioco italiane. A mancare era sempre la stessa: il dieci di spade. Yuri. Quel 23 Gennaio, giorno del suo compleanno, Svevia aveva ricevuto un plico. Stessa busta. Stesso inchiostro. Stavolta a casa. Una lettera e una sola carta. Quella che era sempre mancata. Amico/ nemico mio, è la prima e l’ultima lettera che riceverai mai da me. Sono fuori dal giro. Ormai mi è rimasto poco da vivere. Un tumore non operabile è al suo ultimo stadio. Sei mesi o anche meno. Quello che ho visto in questi ultimi anni non mi è piaciuto. Oh, lui ha fatto tanto per la Russia si, ma sta trattando il nostro popolo come un bambino, di nuovo. Non era in questo che credevo. Il sogno sovietico ci aveva illusi. La mancanza di democrazia per noi era solo la temporanea, necessaria, dolorosa fase prima della promessa della felicità in terra. Non è mai arrivata. Lui nemmeno questa illusione ci lascia. Un piccolo regalo per Te. I due spacciatori morti a luglio e i trecento chili di coca scomparsi. Il lavoro è stato fatto da manovalanza della Sacra Corona. Ma chi ha bruciato i finanzieri sul tempo è un insospettabile, lo stesso che ha parlato sulla missione dei carabinieri a Belgrado. Il Maresciallo Mira è in coma per colpa sua. E’ il Loro nuovo contatto qui. Il mio, invece, non lo ha mai scoperto, anche se ci arrivasti vicino. Ora si sta godendo la sua pensione di spia a Varadero. Non mi piace il nuovo Zar, non mi piacciono più Loro e non mi piacciono più nemmeno i tipi di Italiano che tradiscono. Leggevano Marx e Tolstoj ai miei tempi, ora, invece, solo gli estratti conto. So dove scambiano le istruzioni, mi inserirò nella catena. Io diventerò Loro. Chiederò alla talpa di tenerti d’occhio e, se necessario, di eliminarti perché stai lavorando a un’ operazione al porto. La mia cattura. Gli fornirò pochi dettagli dell’operazione Italiana. Scriverò che sarete solo due persone: tu e un uomo del ministero. Nemmeno tu ne conosci l’identità. Lo riconoscerai il giorno dell’operazione perché porterà con sé una copia del bellissimo “Un eroe del nostro tempo” di Lermontov. A questo punto il traditore Italiano vorrà eliminare il funzionario del ministero e poi te. Sono terrorizzati dall’idea che io possa parlare. Anche la talpa lo sa. Farei scoprire molte cosette e, sebbene io non lo conosca, vi permetterei di arrivare anche alla nostra attuale spia. La bottiglia di grappa che lasciasti alla nostra ambasciata di Zagabria, la conservo ancora con cura. Quando sarà giunto il mio momento l’aprirò e berrò alla Tua salute. Grazie. Sarebbe stato bello conoscerti ed esserti amico ma il tempo e la storia non ce lo hanno concesso. “Questo potrebbe costituire l’argomento di un nuovo racconto, ma intanto il nostro è finito.” 1866, Yuri.  Svevia sorrise. Una citazione colta di una spia russa in una lettera ripiegata nella tasca interna della giacca di un agente Italiano. Una spia leale. Uno sportivo. In un’ altra dimensione sarebbe stato un suo amico.
Svevia ricordava lo stesso orario, lo stesso freddo, molto più a est. Novembre 1978. Moro era morto. Yuri era vivo. Svevia arrancava sulle tracce dell’agente. Da Trieste si era ritrovato a Praga.Viaggio non facile. C’era arrivato dopo aver lasciato un cadavere sui binari di una stazione. A Malá Strana, un indirizzo certo. Svevia era entrato nella casa. Odore di tabacco e tè russo. Una poltrona dall’imbottitura ancora tiepida. Sul tavolinetto un’ edizione in pelle di “Memorie dal sottosuolo”. A fianco una busta. Più grande del solito. Il suo nome sopra. Dentro: trentanove carte, una vodka pregiata e un biglietto. Perfetto italiano, bella grafia, una scrittura elegante: “Una persona intelligente non può diventare sul serio qualcosa, giacché a diventar qualcosa ci riesce solamente l’imbecille”. Yuri anticipava, Yuri prevedeva, Yuri intuiva le sue mosse. Volpe siberiana dall’olfatto miracoloso e il passo danzato. Animale pregiato promesso solo al cacciatore più fine, all’uomo dotato di maggior pazienza. Camminava Svevia, nel silenzio più assoluto, il silenzio che spesso precede i momenti più importanti della vita. Assenza di suoni cara ai fantasmi della memoria che, come richiamati da un medium esperto, si affacciavano a salutare la coscienza a ogni passo sull’asfalto freddo. Sua moglie Sara, sognata tante volte dopo l’inverno del ’96, in quei momenti di preoccupazione estrema, tornava alla ribalta sulla scena dei travagli interiori. Non fare tardi..se puoi chiama..fa’ il tuo dovere con umanità.
Era arrivato ai portici del corso cittadino. I portici come a Bologna. I portici come a Torino. Animale ghiotto la volpe a rischiare incontri in cioccolateria. Svevia si era ritrovato alla distanza giusta per un buon tiro in piazza San Carlo. La nuca di Yuri nel suo mirino. Educazione sportiva però, più che bellezza dei luoghi, a inibire lo sparo al figlio del Generale Settimio Severo Svevia: – Attilio nessuna gloria e Valhalla a mirare alla schiena! Nel vuoto Pantheon dell’agente sovietico in fuga invece, non ad assenti dei ma alla classe innata del suo cacciatore, si levava il ringraziamento. Ma questa era città di mare. Altri i pericoli.  Altre le spie a muro crollato. Solo oscurità e silenzio. Poche e lontane luci in quella notte senza luna. Nei riflessi di una vetrina buia, gli occhi percepirono una faccia. Un lampo di impulsi visivi, punti che, come in un quadro impressionista, acquistavano forma solo a guardarli da lontano.
Un brivido sul corpo. Si era voltato. Nessuno.  La città era ancora spolpata della sua umanità. Eppure quel viso non era un sogno. Quel viso lo conosceva bene.  Era lui. Sessantadue anni, sposato con due figli maschi. Uno avvocato, l’altro direttore di albergo a Bruxelles. Ex battaglione Tuscania, maresciallo con incarichi speciali, fisico taurino, barbetta con striature bianche, ogni mattina sveglia ore cinque, trenta minuti di corsa e cinquanta piegamenti sulle braccia. La sua prontezza fisica era imbarazzante per tutti. Dei suoi atti di polizia giudiziaria si raccontava, poi, essere perfetti. Precisi, dettagliati, senza un solo errore. Brandiforte non sbagliava mai. Giuliano Brandiforte da clonare e produrre in serie in un esercito perfetto di carabinieri bionici. Nel suo patrimonio genetico però, a questo punto, la falla appariva evidente. Avrebbero riprodotto solo viscide e indegne spie. Se fosse sopravvissuto a quella notte gli avrebbe strappato, personalmente, gli alamari dalla giacca. Perché scegliere il migliore, quello da mettere sul calendario dell’arma, per tradire? Perché se tradisce il migliore, il morale degli altri si affloscia e l’intero castello cade.
Così il suo io di spia aveva risposto al suo io carabiniere. Il lato smaliziato e disilluso che gli aveva fatto estrarre la pistola, armarla e metterla nella tasca. Quel suo sé stesso cinico che gli aveva fatto portare anche una piccolissima automatica allacciata alla caviglia. Trucco da barba finta, espediente ormai conosciuto ma che, nell’aprile del 1979, gli aveva salvato la vita. Era arrivato al porto. Molo trentadue. Banchina numero sette. L’imbarco delle navi da crociera. Anche tra le sagome buie di quei Leviatani addormentati vi era il deserto. Presto Giuliano lo avrebbe raggiunto. Si sarebbe sincerato che era lui. Gli avrebbe mostrato il libro e poi lo avrebbe ucciso. Per quanto.. centomila? In rubli ? In euro? Brandiforte in una dacia sul mar nero a godersi la vecchiaia mangiando beluga e a ripensare a quel giorno in cui aveva fatto fuori il Colonnello Attilio Svevia, soprannominato “Silla” dai suoi omologhi al Cremlino. Passi dietro di lui. Troppo tardi, dopotutto Giuliano era o non era il migliore? Si girò. Landini. -Tenente Landini!? -Colonnello. Comandi. Svevia incassò il petardo di stupore e sollievo. Sorrise. Gli fece cenno di mettersi al riparo dietro il chiosco di una biglietteria per la Sardegna. -Landini adesso le dico velocemente: Una cosa grave. Brandiforte ha tradito il suo paese. È una spia. Ci segue. Lo dobbiamo prendere. Mi raccomando è forte, intelligente ed esperto. Lei vada verso est io chiudo a ovest, se ci troviamo in difficoltà chiamiamo la centrale… tutto a posto Francè? Una faccia simpatica, Landini. In accademia il primo. In compagnia il primo. Mamma malata in casa, ferie passate ad accudirla. Fidanzato da qualche anno, nozze vicine. Si Colonnello, ma… -Niente ma, poi ti spiego. Arma in pugno e coraggio va bene? -Si Colonnello… -Dai forza! Pacca sulla spalla e sguardo rassicurante. Svevia si girò procedendo verso la banchina numero sette. Rassicurato dalla presenza del giovane e promettente ufficiale, si sentiva già più tranquillo nell’affrontare mister perfezione venduto ai russi. -Colonnello, non vuole vedere il libro? Per qualche passo il corpo procedette da solo. Inerzia ebete che non vuol sentire ciò che è innominabile. Ciò che spezza il carattere e l’intelligenza al puro. Bestemmia oscena del tradimento che, in quanto tale, fa il nido nelle cose tue più care, altrimenti non sarebbe.. Corpo immobile. Brividi freddi. La vita fermata in pausa. Poi il tasto dello scorrimento veloce
..Attilio mi ami? ..Lei è Sofia e pesa tre kg e otto..Tenente Svevia Le conferiamo la medaglia di bronzo al valore ..Papà centodieci e lode! ..Oddio Attilio!.. il cuore.. Attilio! -Il libro, Colonnello. Larmontof. Yuri aveva ragione, “solo gli estratti conto.” Il sole, gli sarebbe mancato il sole. Gli sarebbe piaciuto andarsene col sole. Omaggio di guance calde a labbra d’osso di dama morte. Il sole. Come quel giorno a Fiumicino quando, in ginocchio sulla spiaggia, anello in mano, gli aveva chiesto di sposarlo. Si! Si! Si!..Attilio mi ami vero!? L’avrebbe abbracciata di nuovo. – Si.. Landini, si. Lentamente, Svevia si portò a vederlo negli occhi. La copertina del tascabile in mostra, l’arma puntata su di lui. Una Makarov silenziata e come poteva essere altrimenti? – L’arma a terra! Svevia ubbidì. – Non mi chiede perché? Svevia il muto. Svevia il tradito. Svevia l’offeso. La sua testa nel cenno del no. – Fa niente. Lei non mi è mai piaciuto, Colonnello. Uno sguardo crudele sul viso. Lampi gialli negli occhi. Fiamma sull’arma, nessun rumore. Dolore alla gamba destra. A terra. Aspettando la morte. La mano troppo distante dalla fondina alla caviglia. Landini sopra. Il nero buco della canna. Ecco la fine. Inevitabile. Certa. In ultimo portatrice di una certa quiete e rassegnazione. Era stata una bella vita. Era pronto. Però la mascella di Landini esplose uscendo dal campo visivo. Al suo posto il pugno, poi il braccio e infine la testa di Brandiforte. Braccia a prenderlo e a sollevarlo. Mani a scuoterlo. -Colonnello Su! Alla gamba è solo un graffio..forza! Aveva ragione Giuliano. Non era così grave, il crollo era stato più emotivo. Una fascia improvvisata. Un caffè al primo bar che finalmente aveva aperto. Il lampeggiante del radiomobile mandava lampi azzurri sul viso insanguinato di Landini, la spia. -Con il dovuto rispetto per Lei è i servizi, stavano appresso a Landini ormai da mesi. Spendeva ingenti somme. Aveva messo una badante fissa a casa. Una porsche intestata a un cugino sulla quale però era lui al volante ogni fine settimana. La barca formalmente dello zio. Ristoranti alla moda. Viaggi esclusivi. Orologi di lusso. Telefonate dalla Puglia. Intercettazioni con boss della Sacra Corona. Ritiri di plichi in depositi abbandonati. Quando stamattina è uscito. Chi lo teneva d’occhio mi ha informato. L’ho seguito. Poi ho visto lei sotto i portici e per un attimo mi sono confuso. Vi ho osservati da lontano ma sono riuscito a capire la gravità della situazione un minuto più tardi del dovuto. – Ancora dieci secondi e non c’ero più Cavaliè! – Ha ragione Colonnello, mi scusi. – No, non deve. Mi ha salvato la vita. L’errore non è stato suo. L’errore è stato mio. Sorrisero entrambi. Svevia guardò le banchine. Il mare scuro del porto. Le acque libere già più chiare a est. Una nave da crociera stava salpando. Iniziava la manovra aiutata dalla barca del pilota. Il chiaro del giorno, come un solvente, stava smacchiando la realtà. Il traffico umano di equipaggi, ormeggiatori, finanzieri, baristi e camerieri iniziava a fluire. Zoppicando Svevia si diresse verso quel molo. A bordo della nave. Sul ponte più vicino, un passeggero mattiniero con cappotto e cappello si teneva un fazzoletto premuto sul viso. Il corpo squassato dalle inequivocabili convulsioni della tosse. L’altra mano reggeva un libro. Anche da trenta metri, al Colonello, parve di riconoscere una certa edizione di “Delitto e castigo” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Una sensazione di familiarità lo colse lì, in piedi, sul ciglio rinforzato dell’ultimo pezzo di terraferma. Il viso gli si aprì in un sorriso. Lo stupore e l’intuizione stavano schiaffeggiando spia e carabiniere insieme. Attilio fa’ il tuo dovere con umanità.. La nave si era staccata dalla banchina. Un colosso per viaggi di lusso, cene in smoking e visite lampo nella capitali mediterranee. Un traversata perfetta per giovani coppie estimatrici del genere o per anziani rassicurati dalla vista superficiale del mondo da un cannocchiale a cinque stelle. Alcuni di essi, i più vecchi, attratti proprio da quest’ultimo sguardo sulle bellezze del pianeta, nella consapevolezza della prossimità della fine. L’uomo sul ponte, per un istante libero da cronici scuotimenti polmonari, riposto il volume, come in un commiato d’altri tempi, mosse impercettibilmente le dita in segno di saluto.

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