(A cura dell’Avv. Pietro CUCUMILE, dirigente Comandante del Corpo di polizia locale di Civitavecchia, dottore di ricerca in diritto amministrativo, giudice onorario minorile)

Quarta ed Ultima Parte.
Infine, qualche osservazione si impone anche in relazione ai rilievi della polizia giudiziaria, di contrasto agli accertamenti tecnici ripetibili ed irripetibili. Con i delitti informatici, infatti, si squaderna tutta la prassi d’indagine perché la polizia giudiziaria ha bisogno di utilizzare alcuni programmi applicativi per acquisire i dati per cui si fuoriesce da un’attività di rilievi. La stessa copiatura è un accertamento tecnico ripetibile ma altre volte è una scelta metodologica che va condivisa con il difensore.
Non da ultimo, si ricorda che la prima sezione della Corte di Cassazione ha affermato, con sentenza n. 37596 del 12 settembre 2014, che Facebook deve essere considerato un “luogo aperto ed accessibile al pubblico” e pertanto chi scrive insulti o frasi poco rispettose  sulle bacheche altrui può essere perseguito per il reato di molestie, art. 660 codice penale. La sentenza nasce da una denuncia presentata a Livorno nel 2008 da una donna in merito ai commenti a una sua foto. L’autore fu assolto in primo grado dal Tribunale ma poi, nel 2010, fu condannato in appello. Ebbene, la Corte di Cassazione, confermando la condanna,  stabilisce il principio che Facebook, al pari di altri social network, va considerato come una vera e propria piazza virtuale che consente un numero indeterminato di accessi e visioni, rese possibili da una evoluzione scientifica che il Legislatore non era arrivato ad immaginare.
Con riferimento, invece al reato di diffamazione, la giurisprudenza, dapprima disorientata dal contesto “social”, si è poi orientata, con sempre maggiore sicurezza, a ricondurre le ipotesi di diffamazione commesse a mezzo dei social network alla fattispecie generale della diffamazione aggravata, perpetrata mediante l’utilizzo del mezzo di pubblicità. In questo senso si richiama una recentissima sentenza della Corte di Cassazione ( ), la quale ha affermato che la frase diffamatoria postata su Facebook diventa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti, quand’anche essa fosse pubblicata solo per il gruppo ristretto degli “amici”, poiché la conoscibilità del contenuto ingiurioso da parte di almeno due persone integra la fattispecie descritta dalla norma (“comunicando con più persone”). Anzi, questo è proprio l’obiettivo precipuo del navigatore: utilizzare un mezzo di comunicazione che consenta al messaggio di raggiungere potenzialmente, in contemporanea, un ampio numero di destinatari, in questo modo integrando l’elemento psicologico prescritto dalla norma secondo cui, per aversi il dolo, è sufficiente la semplice volontà che la frase giunga a conoscenza di più persone, anche soltanto due. È irrilevante, prosegue la suprema Corte, la circostanza che in concreto la frase sia letta soltanto da una persona. Di qui l’affermazione dell’aggravante dell’offesa arrecata (a mezzo stampa o) con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. La decisione non è scontata, se si tiene conto del fatto che diversi tribunali di merito avevano di volta in volta negato, nelle comunicazioni mediante social network, l’elemento, essenziale, della comunicazione con più persone (potendosi l’emittente rivolgere ad un numero ristretto e selezionato di “amici”), oppure ancora era stata negata la possibilità di definire il social network come mezzo di pubblicità (dovendosi andare a verificare le impostazioni di privacy introdotte dall’emittente), in realtà ignorando il fatto che ogni restrizione imposta dall’emittente trova il proprio limite nell’eventuale assenza di restrizioni nei profili di uno o più destinatari (“amici”) inizialmente selezionati.
È doveroso dedicare un cenno anche alla fattispecie che riguarda l’estensione della responsabilità penale, per il delitto di diffamazione a mezzo stampa, al direttore o vicedirettore responsabile, all’editore e allo stampatore. Qualora infatti la condotta criminosa si concretizzi nell’avere postato frasi offensive su siti o blog aperti di testate giornalistiche, utilizzando lo spazio riservato ai commenti in calce agli articoli pubblicati, è necessario interrogarsi se operi la responsabilità penale prevista dalla norma esaminata. La questione si pone nei seguenti termini, se cioè sia possibile delineare, in capo ai gestori dei siti internet citati, una culpa in vigilando per violazioni commesse dai propri utenti, ritenendo assimilabile ad un responsabile editoriale il gestore di un sito internet che, di conseguenza, si deve ritenere obbligato a controllare la legittimità di tutto quanto viene pubblicato sul proprio server. Sul punto vi sono orientamenti discordi, ma ci si trova sostanzialmente in linea con chi afferma che, stante il divieto dell’analogia nel diritto penale, difficilmente si potrà attribuire una responsabilità penale colposa, tenuto anche conto delle caratteristiche specifiche del mezzo di comunicazione telematico considerato, sul quale è difficile immaginare forme di controllo paragonabili a quelle che possono essere esercitate dal direttore sui contenuti del proprio giornale.
Da quanto sopra succintamente riportato, si evince la necessità di portare la computer forensics nel patrimonio conoscitivo della polizia giudiziaria, nella consapevolezza che gli artt. 360 c.p.p. e 117 disp. att. c.p.p. vanno letti alla luce degli artt. 111 e 117 Cost., i quali fanno riemergere il contenuto e la cogenza degli artt. 8 C.E.D.U. e 7 C.D.F.U.E., richiamando al riconoscimento dei diritti fondamentali nell’accertare i reati informatici.
Dott. Pietro CUCUMILE

 

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