(Seconda Parte).

Nonostante la sua dipendenza dalla vodka Irina non è mai risultata avere perso la sua lucidità, ne tantomeno il suo acume e la sua scaltrezza, dimostrando di contro, di essere un’assassina seriale alquanto scaltra, fredda e “preparata”.     Oltre alle motivazioni economiche, la “lupa di Krasnoufimsk”, così come successivamente fu definita, con la sua freddezza, riusciva ad organizzare meticolosamente e minuziosamente le sue azioni, tanto che la si può sicuramente definire criminale con modus operandi “organizzato”. Il suo “lavoro”, consisteva nella ricerca giornaliera, attenta e meticolosa, lungo le strade della città delle sue vittime,  rigorosamente donne, anziane over 60 sino alle ultra ottantenni, sole,  con carattere espansivo e disponibile e con le quali fosse stato semplice, instaurare un dialogo. Una volta individuata la vittima con le giuste caratteristiche, questa veniva seguita e pedinata per interi giorni; Irina ne studiava e ne  apprendeva mosse ed abitudini, giorni ed orari di eventuali relazioni con parenti ed amici, premeditando così quale fosse stato il momento migliore per organizzare e mettere in azione il suo piano criminale.     Successivamente, Irina poneva in essere un mixer micidiale che faceva tutto il resto, presentandosi sempre ben vestita presso le abitazioni delle sue vittime e spacciandosi per un’assistente sociale, con il suo parlare ed i suoi modi eloquenti, la sua apparente educazione, la bella presenza, i capelli biondi. In questo modo, bastavano poche parole per acquistare la fiducia della sua interlocutrice, così che con qualche innocente scusa, come ad esempio quella di usare il bagno o di avere la necessità di bere qualche bevanda, otteneva facilmente il consenso all’acceso in casa della povera malcapitata, che finiva poi nella rete dell’inesorabile A questo punto, il “gioco” era fatto: Irina estraeva il martello ed infieriva senza alcuna pietà sulla sua vittima massacrandola, iniziando subito dopo imperturbata, a rastrellare l’intera abitazione, asportando denaro e cibo, ma mai beni preziosi, sapendo bene che le avrebbero potuto creare problemi di ricettazione, occultando poi, con accurata scientificità ed oculatezza, ogni prova del suo crimine. La sua azione, seguiva con il mettere a soqquadro l’abitazione oggetto della scena del crimine, in modo tale da simulare l’intervento del solito “topo” di appartamento, dandola in alcuni casi, anche alle fiamme in modo tale da distruggere eventuali prove. In questo modo, riusciva a mettere sotto scacco ed a dura prova le attività degli investigatori, che  fuorviati, vennero a trovarsi per lungo tempo letteralmente a brancolare nel buio, portati a pensare in un primo momento, data la particolare violenza degli omicidi, all’azione della mano di un uomo e poi successivamente sempre a quella di una figura maschile, ma celata dietro una maschera da donna. La prima svolta nelle indagini si ebbe quando una donna, scampata alle ”attenzioni” della criminale, tale Bilbinur Makshaeva, denuncia alla polizia che l’autore dell’azione sarebbe stata una donna con i capelli biondi e quindi le ricerche degli inquirenti cominciano a prendere un diverso indirizzo, anche se ancora in mezzo a mille difficoltà e distanti dalla vera realtà dei fatti.  Dal 2002 al 2010, circa 3.000 persone vengono sottoposte ad interrogatori ed analisi incrociate, che portarono a rivolgere l’attenzione degli organi d’investigazione, verso una “donna bionda” e che condussero successivamente all’arresto di tale Irina Valeyeva, di 29 anni, alla quale però, immaginandone i modi, sembra sia stata letteralmente estorta la sua confessione e che è invece risultata successivamente assolutamente estranea ai fatti ad essa imputati.   Nel contempo, la vera assassina seriale, per nulla intimorita e preoccupata, sposta la sua attività in altre città più lontane da quella ove sin’ora aveva operato, continuando imperterrita nella sua efferata opera di adescatrice ed uccisore seriale.      Intanto, l’interrogatorio di tutte quelle persone e le testimonianze fornite dai vicini della sua ultima vittima 81enne, tale Alexandra Povaritsyna, alla quale invece che per assistente sociale, si spacciò ed offrì in qualità di pittore per ridecorare la sua abitazione, condussero finalmente ad arrestare nell’anno 2010, la vera assassina.         Nel caso della Povaritsyna, i vicini riuscirono a fornire agli inquirenti, una precisa ed alquanto dettagliata descrizione della “pittrice”, che consentì di ricondurre gli stessi investigatori alla donna che aveva ucciso a randellate la povera pensionata, contribuendo  finalmente al suo arresto. Condannata a venti anni di reclusione, la difesa della criminale ha ritenuto che la pena fosse eccessiva, riservandosi di ricorrere in appello. Infatti, secondo i suoi avvocati, Irina, quale madre, avrebbe avuto diritto a delle attenuanti maggiori, e quindi ad una reclusione di minore entità. Nel concludere, c’è da sottolineare ancora una volta l’acume dimostrato dalla criminale seriale, tanto che, nè i suoi conoscenti, nè suo marito, avevano mai avuto modo di dubitare dell’integrità della donna. Secondo gli stessi, mai trapelò, che dietro di essa ci fosse un freddo, cinico, meticoloso, quanto mai efferato assassino seriale, tanto da essere stata sempre considerata una madre normale, che prestava l’attenzione necessaria alla propria figlia Anastasia. Il marito, che aveva vissuto con lei per 14 anni, per poi andare a vivere con un’altra donna, avrebbe dichiarato in proposito, che in tutto questo tempo relativo alla convivenza con la donna, non sarebbe stato mai indotto a sospettare nulla di quanto accaduto.
Dr. Remo Fontana.

 

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