Bugie che uccidono – A cura di Gino e Gaia Saladini
Si può uccidere per nascondere una bugia? Il terribile caso dei coniugi Gabriele
Roma, 22 marzo 2002. Il giovane Aral Gabriele comunica al 112 di aver trovato i genitori morti, supini sul loro letto matrimoniale, chiusi in due grandi sacchi di plastica sigillati con nastro adesivo. I dettagliati sopralluoghi eseguiti nell’abitazione teatro del duplice omicidio, rilevano un appartamento in perfetto ordine, dove non si repertano tracce riferibili a possibili colluttazioni. Va sottolineato che su un mobile c’è un biglietto che reca scritto con il pennarello: “Vado a cena fuori. Torno tardi. A domani. Aral”. L’autopsia mette in luce che i decessi sono stati causati da un’intossicazione acuta da Lormetazepam, un ansiolitico, in azione sinergica con alcol. Ma c’è un macabro dettaglio: i due coniugi erano ancora vivi quando sono stati chiusi dentro ai sacchi della spazzatura.
Le indagini proseguono per quattro mesi quando, grazie ad un’intercettazione, Aral Gabriele viene fermato con l’accusa di omicidio volontario aggravato. Ma cosa può aver portato un giovane ad uccidere i propri genitori? Per la procura la colpa è di una bugia. Aral Gabriele, infatti, studente fuori corso della facoltà di Giurisprudenza, aveva tenuto all’oscuro i genitori della sua reale situazione, arrivando addirittura a dire di essere in procinto di laurearsi e a fissare la festa di laurea, pur di non rivelare la verità dei fatti. Succube di una madre troppo protettiva e di un padre troppo severo, per non affrontare le conseguenze delle sue bugie, Aral avrebbe ucciso i genitori attraverso la somministrazione di un farmaco nella loro cena.
Per gli inquirenti non esistono alternative possibili. L’imputato, recidivo con le bugie, infatti, aveva sempre detto di aver dormito ininterrottamente nella sua mansarda-studio quella sera, ma i rilievi fatti dai carabinieri sulla sua utenza telefonica avevano smentito tale affermazione. A fronte di tutto ciò, Aral Gabriele viene sottoposto a perizia psichiatrica, dalla quale risulta essere un soggetto esente da patologie della sfera neuropischica, quindi capace d’intendere e di volere all’epoca dei fatti. Inoltre, è bene ricordare che per i periti d’ufficio, l’imputato presentava un disturbo psichico con i tratti di una personalità passivo-aggressiva con tratti narcisistici, anche se detto disturbo non è inquadrabile in nessuna delle categoria nosografiche accettate dalla comunità scientifica.
Per questi motivi, visto l’efferato delitto messo in atto per un motivo così poco incisivo, il caso viene chiuso e Aral Gabriele condannato a 28 anni di carcere.