Tre anni. Tre anni soli di vita, aveva detto il medico se non cambiava registro e non la smetteva con le fritture. Il cuore, questo muscolo ingrato ( e per questo era uscito dal suo studio canticchiando “Core, core ‘ngrato”) non avrebbe retto oltre la massa dei 130 chili di Francesco Gargiulo, di anni 57, vicequestore aggiunto al commissariato di Civitavecchia, per tutti: guardie, ladri, magistrati e avvocati, semplicemente “Don Ciccio”.
Era il 16 luglio 1952? E pazienza il 16 luglio del 1955 se ne sarebbe andato! De resto ci si vedeva a mangiare verdure, a bere acqua e a camminare per due chilometri al giorno? No, Don Ciccio non ci si vedeva. Don Ciccio si vedeva unicamente a sgranocchiare grissini in attesa di Buono Raffaele, in arte Fefè, che da 20 anni gli serviva polpi, cozze, vongole, orate, spigole e ogni altro ben di Dio ai tavoli (per la verità uno, solo e sempre quello vicino al molo) de la Pezzonia trattoria (sulla carta, ma in cucina cinque stelle minimo) di Pasquale, per tutti Pasqualino, diminuito in Lino Cercace, autoctono di padre , di madre puteolana. Ma altro dolore a quello si era aggiunto. Un fonogramma dalla Procura di Venezia arrivato la mattina. Una cosa seria:
“Causa imminente archiviazione, accerti la SV Illustrissima, con cortese sollecitudine anche a mezzo fonti confidenziali, se risponde al vero che Lino Cercace, già condannato nel 1950 ad anni due e mesi sei di reclusione per contrabbando di sigarette, abbia, la notte tra il 18 e il 19 maggio 1951, lasciato Vostra città per recarsi in nostra città lagunare. Il Cercace è sospettato di aver colpito a morte con corpo contundente De Fazi Antonio, pluripregiudicato, amante della di lui moglie Angela Stirelli in Cercace. In difetto di risposta, stante carenza di solidi riscontri probatori, si procederà ut supra.”
Brutta storia quella lì. Lino non viveva con la moglie Angela ormai da due anni. Vedeva la figlia Maria ogni tanto quando scendevano. Don Ciccio sapeva quello che qualche voce , al paese, mormorava, che il De Fazi, noto femminaro, avesse più volte allungato le mani sulla guagliona, bellezza quattordicenne che di Lino Cercace aveva preso i begli occhi neri e le labbra carnose, ma che dalla mamma aveva invece ereditato quei novanta -sessanta -novanta che facevano voltare gli uomini seduti al caffè. Don Ciccio spense la luce della lampada da tavolo nel suo ufficio al secondo piano. Erano le diciannove e quarantacinque. Tutti sapevano che Don Ciccio sarebbe comparso, immancabilmente, alle 20,10 davanti l’ingresso de la Pezzonia. Si fece chiamare l’auto di servizio. Scese le scale, salutò il piantone e a fatica entrò nell’auto. I dieci chilometri sino a Santa Marinella volarono. L’agente salutò. Don Ciccio lo congedò, le tre camere più bagno cucina e servizi da scapolo impenitente lo aspettavano a quattrocento metri dalla trattoria. Sarebbe rientrato da solo godendosi il freschetto della sera. Fefè già aspettava sulla porta: “On Ciccio caro” salutò. “Nasera Fefè. Il pricipale è tornato”?
“On Cì quello sta al magazzino a preparare il ghiaccio per domani per il battesimo del figlio del farmacista.” Il farmacista! quell’ antipatico con la puzza sotto al naso, così scorbutico con le persone del posto e invece tutto sorrisi e manfrine con i villeggianti romani. D’inverno, però, come tornava a campare con i tanto disprezzati paesani! Il farmacista che dopo averlo salutato diceva ogni volta “Don Ciccio perché non passate un secondo da me così vi misuro la pressione?” Don Ciccio era sicuro che per un attimo il sorriso di cortesia volgeva al satanico, un qualcosa di appena intravisto, uno scintillio sui denti e sui freddi occhi grigi, una frazione di secondo, eppure sufficiente a mutargli il perenne buon umore e a costringerlo a toccarsi in basso, qualche metro dopo aver incrociato lo speziale menagramo. Lino arrivò: “On Ciccio” fece sorridendo. “Principà comme stai?”, rispose lo sbirro. “On Ci, e cumme stò? Sto sempre a faticà”. “Lino, poi passa un secondo da me che ti devo dire una cosa..”. “On Ci e che problema c’è? come finisco passo con una bottiglia di liquore al limone ghiacciata come piace a Voi. Ah.. ma ve la detto Fefè? Stasera purptiell, gamberi, merluzzetti, calamari e trigliette che stamattina si muovevano ancora”
Don Ciccio visualizzò la scena, soprattutto le trigliette.. i confetti del mare come diceva sempre a Mammà. Sospirò.
Fefè arrivò con il mezzo litro freddo. La foglietta con il vetro appannato, le gocce di vino ambrato che scivolavano sulla superficie, quella sensazione al tatto prima di versarlo nel bicchiere, don Ciccio si godette il momento. L’attimo unico in cui, dopo una giornata afosa come quella, il liquido ghiacciato scivolava dalla bocca sin dentro lo stomaco a prendere presidio, aprendolo e preparandolo e a mandare stupidi impulsi ridarelli al cervello. E infatti Don Ciccio, buttato giù il mezzo bicchiere, rise senza motivo. Arrivarono subito due alicette e i purptiell alla Luciana. Don Ciccio iniziò a mangiare. Lo vedeva invece Lino Cercace a prendere a randellate quel fetente del De Fazi amante della moglie? Si ce lo vedeva e, cosa brutta assai, ci si vedeva pure lui, senza rimorso, col suo bel bastone da passeggio lavorato a prenderlo a mazzate. Smise di pensare. Cercò di ridarsi contegno. Era pur sempre un funzionario dello Stato, della Repubblica ora, prima invece solo distratti Eja Eja e svogliati saluti romani ma il lavoro era sempre lo stesso. E il dovere soprattutto. Sul dovere Don Ciccio non transigeva. Il dovere, lo Stato, la legge. Si toccò la tasca destra dell’abito di cotone, taglia cinquantotto, per sincerarsi della presenza del foglio di carta proveniente dalla città di San Marco, che tanto lo stava angustiando. Il foglio, purtroppo, c’era ancora. Se Pasqualino si era allontanato da Santa Marinella allora aveva ucciso quell’essere immondo del De Fazi. Non ci pioveva. Venezia stava archiviando. Quello era l’ultimo disperato appello, poi carte, cartoni e cartuccelle tutte chiuse in un bel faldone a prendere polvere per il futuro nell’armadio degli irrisolti. Non che non si meritasse di giacere per sempre in uno scantinato della Procura. De Fazi era stato fascista, poi partigiano rosso, ora democristiano. In Liguria si diceva avesse molestato due ragazzi delle elementari e in Emilia aveva rischiato il linciaggio, quando la povera studentessa da lui costretta a non meglio precisati atti di libidine si era suicidata per la vergogna gettandosi dalla finestra dell’ospedale. Don Ciccio ripensò al 18 e al 19 maggio. A la Pezzonia Lino non si era visto affatto. Raffaele aveva detto che stava male. Don Ciccio se lo ricordava come fosse oggi. Il diciotto aveva mangiato minestra di pesce e dentice arrosto. Il diciannove zuppa di pesce e impepata di cozze. Tutto eccellente, per carità ma non servito direttamente dal pricnicpale. Mmm…
Ma il miracolo arrivò a troncare vaghi percorsi logico induttivi. Eccola qua la sua soluzione al sette per cento. Per Sherlock Holmes da iniettare in vena, per lui esclusivamente via orale e di consistenza croccante. Eccola, calda, fumante, profumata, dorata, per lui solo per lui. Fefè la teneva in bilico su una pirofila per quattro persone. Quell’oro di mare era contornato da mezzi limoni di Sorrento grossi e splendenti come gemme di una corona borbonica. Poggiò il piatto, portò a Don Ciccio la scodella e con la coppia di servizio gliela riempì. Don Ciccio iniziò a prendersela con gli anelli, coraggiosi e solitari pionieri, che disarmonizzavano la composizione a bordo piatto. Ne infilzò un paio e li portò alla bocca. Sotto la crosticina croccante e bollente il tenero del calamaro lo commosse. Masticò lentamente estasiato. Poi innaffiò il piatto con il succo di limone e le se la prese con i gamberi, inghiottendoli con gusci, zampette e tutto il resto. A quel punto, la dichiarazione di guerra era in re ipsa e l’attacco fu spaventoso e brutale. Non fece prigionieri e si scagliò su tutti indistintamente : triglie, merluzzi, anelli dorati, gamberi. Ogni tanto un respiro si, un sorso di vino gelato si, e poi di nuovo nell’agone della lotta culinaria, spietato come una carogna sanguinaria. Sorrise Don Ciccio, lui torturatore mai, i suoi interrogatori erano tutto un gioco di psicologia come Porfirij Petrovič con Raskolnikov, ma con le bestioline di mare fritte era tutta un’altra storia, sarebbe stato spietato e crudele per tutta la vita o meglio per quello che ne rimaneva. A questo pensiero scosse la testa un poco sconsolato ma, tutto sommato, con un espressione da gatto nel retro di una pescheria e come tale continuò a mangiare di gusto. Stava imbrunendo e la tanto desiderata frescura arrivava pian piano. L’acqua del mare era splendida, i primi raggi di luna mandavano riflessi d’argento. Un bel silenzio rotto solo dalle note della dolce melodia che veniva dalla radio. I pochi clienti vociavano sommessi. Don Ciccio masticava felice. Infilzò l’ultimo gambero poi si riempì di nuovo il piatto. Osservò le trigliette. Perfette, fritte a puntino con doppia camicia di farina 00 a volte anche un poco di farina di mais per renderla più croccante. La frittura di paranza sembra un piatto facile ma non lo è affatto. Ci vuole tempismo, occhio e amore. Si, Luigino era proprio un grande cuoco e lui si sarebbe goduto le sue fritture sino alla fine. Inghiottì un pescettino tutto intero. Ehh si. Ad un tratto, però, avvertì l’insinuarsi di un pensiero. Come quando, d’inverno, senza apparente motivo, ti si gelano pian piano le gambe e alla fine scopri che qualcuno ha lasciato aperta la porta. Un pensiero più serio e fastidioso della morte che lo fece quasi strozzare, il ricordo terribile di quando avevano arrestato Lino per la storia delle sigarette. Per la verità dopo qualche mese era uscito, sette mesi, e diciotto giorni per l’esattezza ma tanto era bastato per terrorizzarlo. Il sostituto in cucina, Alfonso Liguorini, lo aveva quasi ucciso con un riso alla pescatora insipido e poco cotto. Il suo merluzzo all’acqua pazza faceva pietà e la frittura, la sua frittura era diventata immangiabile. Moscia, salata, con pescato a volte non freschissimo.
Erano stati mesi di patimento e ambascia. On Ciccio si era avventurato perfino alla “Vongole allegre”, ristorante sin troppo pretenzioso, di quel ligure trasferitosi da poco. Ma in quei piatti un non so che di nordico lo aveva infastidito. Vongole e cozze trattate in quella maniera meritavano forse un letto di polenta e una spolverata di parmigiano, più che spaghetti al dente saltati nella padella e spruzzati di prezzemolo a crudo. Giorni duri, cinque chili persi assieme al buon umore poi, alla fine, la decisione. Telefonata al Vescovo. Il Vescovo, a sua volta, aveva chiamato il Giudice istruttore, il Giudice istruttore, buon cristiano aveva convocato il Direttore del carcere, anch’egli devotissimo alla Santa Romana Chiesa. Et voilà, il proprietario de La Pezzonia libero prima del tempo. Di nuovo quel sublime concerto di profumi e sapori fritti. Lino era tornato, aveva capito la lezione, aveva continuato a cucinare divinamente. E ora che ne sarebbe stato? Che incubo incombeva! Che incubo! Il pensiero tornò a pulsare sul viso e le tempie di Don Ciccio modificandone l’espressione facciale. “On Ci tutt’a posto? Che ci stava la sabbia? On ci parlate.. pe ccarità!” Raffaele aveva colto l’espressione agghiacciante nel volto sbirresco ma don Ciccio dovette tracannare il mezzo bicchiere di vino bianco prima di tranquillizzare, con rapidi e decisi gesti della mano destra, il povero cameriere sconvolto. Solo ora le possibili conseguenze di quello che poteva succedere si appalesavano sornione e cattive come zitelle sessantenni. De Fazi, fetente molestatore di bambine, nella fossa, Lino a Regina Coeli o Poggio Reale o a le Carcerette di Civitavecchia e lui a mangiare le fritture mosce di Liguorini. Lo colse il terrore, la paura di passare quei probabili ultimi tre anni a mangiare schifezze per un delitto commesso ai danni di un uomo da poco. Aveva compiuto cinquantasette anni il mese scorso, se doveva andarsene a sessant’anni lo voleva fare alla grande. Tre anni di portate succulente, di chiacchierate notturne davanti a un brandy invecchiato o a un liquore di frutta, aspirando voluttuosamente i suoi pregiati sigari dominicani. Si ma il dovere? La legge? Lino arrivò nel bel mezzo del non semplice interrogativo: “On ci allora che mi volevate dire?”. “Sedetevi Lino.” La faccia preoccupata di Don Ciccio mise a Lino una certa agitazione. “Ebbene”. “Ebbene?”. “Ebbene Lino una cosa grave”. “Grave On Ci ?! O Maronna.. On Ci!”. Calò il silenzio, denso, profondo. Don Ciccio capì che Lino aveva capito. Lo capì dalla voce rotta, dall’espressione del viso, dai gesti nervosi, da tutto. Don Ciccio non aveva solo mangiato fritture nella sua vita. Il più giovane commissario di Italia. La brillante soluzione del caso Astolfi a Firenze. Dodici encomi solenni, il Duce in persona a stringergli la mano per i casi risolti alla omicidi di Roma. Conoscenza profonda degli uomini e di come reagiscono ad un interrogatorio. “Smettila Lino con sto On Ci, On Ci, il gioco è finito. Ti ho scoperto”. Lino si mise la testa tra le mani. “Ti ho scoperto.” Lino non si muoveva, gli occhi appannati dalle lacrime. Pensava che tutta la sua vita sarebbe finita di lì a poco e del resto cosa gli poteva importare oltre? Angela, la sua dolce Angela era scappata con quell’individuo. Maria era stata offesa nel suo onore. Ripensava ancora alla faccia sprezzante di De Fazi, alla sua sicurezza data dalla reputazione di duro, al suo coltello a scatto tirato fuori per impressionarlo. Ma Lino quel giorno era un animale. Dalla tasca della giacca aveva preso il mazzolo di legno che usava per ammazzare i polpi più grossi o per batterne talvolta la carne, e poi tutto si era fatto rosso. “So dove sei andato la notte tra il 18 e il 19 maggio di un anno fa. “ Continuò Don Ciccio-Petrovic Lino, la faccia sul tavolo, ormai si affondava le mani sulla nuca scompigliandosi i folti capelli neri. Tutto finito: il ristorante, la sua vita, Raffaele senza più lavoro e con la famiglia da mantenere. Singhiozzava mutamente, lo si capiva dagli scuotimenti del corpo. “Mi auguro Tu abbia valutato ogni conseguenza e implicazione di una cosa così grave…Vergognati”. Quest’ultima esclamazione sembrò quasi aver fermato i rumori della sera. Nella trattoria si era fatto il silenzio. Fefè, il cameriere, era rimasto impietrito a sbirciare sulla porta della cucina, incapace di muovere un solo muscolo. Dalla strada non provenivano rumori, né umani né animali. Anche il continuo sciabordare delle onde, appena due metri più in là, sembrava essersi fatto più rispettoso del drammatico momento. “Vergognati,vergognati e vergognati ancora… andare a comprare la ricotta all’ingrosso e spacciarla per fatta in casa. Non la prendi da Ninnella ma te la vai a comprare a Frosinone, in quel caseificio industriale che s’accatta i scarti di tuta la Campania. Vergogna. Ecco perché le cassatine avevano quel sapore strano!”. Lino si scosse pian piano, si sollevò. Capì, si asciugò le lacrime. “No, On Ci, nunn’è overo, le cassatine so bbuone. “Nonsignore, ultimamente no”! “No On Ci” ma i gesti erano sollevati, la bottiglia fu stappata, i bicchierini riempiti di liquore gelato. “On Ci Voi pazziate” fece ridendo. “Aa io Pazzeie eh? Ma tu lo sai si o no che le cassatine per me sono sacre!” La ricotta deve essere freschissima..” E così facendo, i due, guardandosi fissi negli occhi, brindarono e bevvero. Il vociare degli uomini, a pochi metri di distanza dalla darsena dei pescatori, non disturbava i primi equipaggi che sistemavano le reti pronti all’imminente uscita in mare e nemmeno la piccola barchetta costruita con carta fine di fonogramma, battente bandiera “Procura della Repubblica di Venezia” che, appena varata sul bagnasciuga vicino al molo, proprio sotto il tavolo di Don Ciccio, provava disperatamente a prendere il largo ma che di certo sarebbe andata incontro, di lì a pochi minuti, a un silenzioso ma non meno letale affondamento.