Assassini seriali. Jane Toppan – La serial killer di Boston (2^ parte)

(continua dall’edizione precedente)

E fu così, che anche Jane, nell’assoluta indifferenza dell’unico genitore rimasto, in misere e pietose condizioni ed all’età di soli sei anni, che venne portata e lasciata dallo stesso padre, insieme alla sorella Delia, di soli due anni più grande di lei, in un orfanotrofio.

Da quel momento in poi, le bambine non viddero più il loro padre, anche se questo fu tutto sommato forse anche un bene per loro, viste le condizioni in cui versavano quando furono abbandonate all’orfanotrofio: mal vestite, sudicie e prive di qualsiasi igiene personale.

Era il mese di novembre del 1864, circa un anno dopo essere stata lasciata presso l’istituto,  quando Honora, attira l’attenzione della ricca famiglia Toppan, tanto che venne presa con loro, anche se non fu mai adottata dalla stessa famiglia, che tuttavia le cambiò il nome in Jane Toppan. La signora Toppan, sembra non avesse preso in carico la bambina per sola pura compassione e spirito di altruismo, ma probabilmente e molto più semplicemente, con il fine di utilizzarla come domestica, anzi meglio dire per l’epoca e per il luogo, come una sorta di schiava.

Nella nuova casa di Lowell, in Massachusetts, la signora Toppan, che aveva un carattere duro ed autoritario, non esitava a comminare critiche e ad infliggere punizioni corporali a Jane, come pure alla di lei figlia, Elizabeth, rendendole per questo, un’esistenza, non certamente facile.

Jane, non risulta essersi mai sposata, tanto da asserire al termine della sua carriera criminale, che se fosse stata madre, non avrebbe mai commesso i suoi delitti, continuando nel dire, di invidiare di fatto la  figlia della Toppan, Elizabeth, poichè aveva la certezza che questa un giorno si sarebbe unita in matrimonio.

Intanto Elizaberth, dopo la morte di sua madre, gongolò a nozze con tale Oramel Brigham, che era un giovane diacono di una chiesa del posto, mentre Jane, continuò a prestare servizio per lei e la nuova famiglia Brigham, sino all’età di circa trent’anni, quando decise di abbandonare la famiglia.

Nel frattempo, sua sorella Delia, rimasta in orfanotrofio sino al 1868, dapprima lavorò come serva, per poi finire a battere la strada ed a morire alcolizzata, miseramente e squallidamente, nella solitudine e desolazione più totali.

Ma, come dicevo poc’anzi, Jane lasciò il suo lavoro presso la famiglia dei Brigham, per intraprenderne uno nuovo, che era quello di infermiera al Cambridge Hospital di Boston. Allo stesso tempo, è l’occasione per la donna, per dare inizio anche ad un’altra carriera: quella di omicida seriale.

Il suo nuovo lavoro, le consentiva di utilizzare i suoi pazienti, come una sorta di cavie umane, analogamente, a quanto fece Josef Mengele, nel campo di concentramento di   Auschwitz. La morfina e l’atropina, erano i suoi veleni preferiti, che utilizzava sulle sue povere vittime, alterandone le dosi cui avrebbero dovuto essere sottoposti, con conseguenti devastanti ripercussioni sul loro sistema neuro-vegetativo.

Tanto per dare una minima idea degli effetti delle due sostanze, l’atropina, somministrata in dosi superiori ai tre mg., già considerate alte, inizia ad agire sulla stimolazione centrale nervosa ed aumentandone ancora il dosaggio, diviene la causa di paralisi letale del sistema nervoso centrale, sino ai 10 mg., che può risultare letale e condurre alla morte.

Mentre, la morfina, utilizzata per lenire particolari ed acuti dolori, oltre a dipendenza, a dosi più elevate, può condurre ad infarto e morte per avvelenamento e comunque in ogni caso, agisce anch’essa negativamente sul sistema nervoso centrale.

Jane, oltre ad utilizzare questi due medicinali, somministrava alle sue vittime, altri farmaci, anche a scopo soporifero, rimanendo molto tempo con i pazienti oggetto dei suoi insensati esperimenti, al fine di osservarne gli effetti, ma permanendo ancora ad oggi, dubbi, sul possibile compimento di eventuali abusi sessuali, perpetrati sulle sue stesse vittime.

Sembra inoltre che Jane, in particolare nei luoghi ove ebbe modo di lavorare, commise parecchi furti, probabilmente anche a carico delle sue povere vittime, alle quali, una volta stordite, risultava estremamente facile sottrarre i loro pochi beni ed al contempo, guardandosi molto bene dal non farsi mai cogliere sul fatto, apparendo ai sui colleghi come una donna allegra e chiacchierona, caratteristiche queste che le fecero guadagnare il soprannome di “Jolly Jane”, seppur tuttavia stranamente e morbosamente attratta dagli esami autoptici.

(continua nella prossiamo edizione)